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Il 26 maggio del 1780 Ragalna rischiava di scomparire sotto la lava dell’Etna

Il 18 maggio del 1780, accompagnata da numerose scosse di terremoto iniziò sull’Etna una violenta eruzione effusiva e con una moderata attività a fontana di lava. La fessura eruttiva si aprì sul versante sud-ovest, alla base di Monte Frumento Supino, da quota 2300 fino a quota 1850 metri s.l.m. La lava, dopo avere investito e circondato il Monte Parmentelli, minacciò il piccolo paese di Ragalna, un tempo chiamato Rechalena. La base di Monte Parmentelli, un grande cono effusivo preistorico, è stata coperta dalla lava che ha circondato il monte e quello che resta è solo una parte dell’imponente cratere dato che la predetta base è stata coperta dall’imponente colata lavica che devastò gran parte della contrada Milia e coprì anche la Grotta dei Santi, citata dal Carrera nel 1636, che si trovava sopra Monte Parmentelli. I fedeli pregarono per giorni affinché Dio salvasse il paese dalla catastrofe, ma la lava continuò ad avanzare e si fermò in contrada Eredità, soltanto il 26 maggio giorno in cui furono portate in processione le reliquie di S. Barbara, patrona di Paternò, dopo 8 giorni dall’inizio dell’eruzione. L’eruzione comunque ebbe termine il 31 maggio dopo avere effuso circa 20 milioni di metri cubi di lava, con una portata media di 16.5 metri cubi al secondo. Il cratere esplosivo, assimilabile ad un enorme hornito, sito a monte della frattura eruttiva si trova lungo il sentiero di Monte Nero degli Zappini e si può visitare agevolmente anche internamente. Con la lava dell’eruzione vennero edificate numerose costruzioni che diedero il nome alla contrada (parmentelli per l’appunto) ed anche i caratteristici “pagghiara ’mpetra” come questi due che si possono ammirare nella foto. Sembrano nuraghi ma vi posso assicurare… non siamo in Sardegna ma nella nostra poco conosciuta e valorizzata Etna!

Testo di Giovanni Tringali, direttore dell’Istituto Ricerca Medica e Ambientale di Acireale

Il “calendario” delle Ripe della Naca

Il 1928 da una frattura originatasi a monte del rifugio Citelli la lava scendeva verso i centri abitati del versante orientale dell’Etna minacciando in particolare S. Alfio e Mascali. Il 2 novembre gli abitanti dei paesi minacciati dalla lava, preoccupati di perdere le loro case, si riunirono per andare in processione al fronte lavico che, alla data suddetta, era già arrivato al sito dove oggi sorge il santuario Magazzeni. Durante la processione si avvertivano violenti terremoti e forti boati provenienti dai crateri terminali. Iniziò anche a piovere. Gli abitanti di Mascali (che tre l’altro era ancora molto distante dal fronte lavico) pensarono bene di ritornarsene mentre quelli di S. Alfio arrivarono fino alla punta più avanzata della colata dove venne celebrata la santa messa. La notte del 2 novembre del 1928 ebbe inizio una violenta eruzione nel sito denominato “Ripe della Naca” a una quota di circa 1200 metri s.l.m. Era l’avvio di una delle più distruttive eruzioni che si sono verificate sull’Etna in tempi storici: il 2 il 3 e 5 novembre sul versante ENE dell’Etna si formò in tre tappe una larga e profonda frattura lunga svariati chilometri. Dalla frattura effusiva apertasi poco prima della mezzanotte del 2 novembre a quota 1200 metri s.l.m. in un fitto bosco di querce e castagni fuoriuscirono milioni di metri cubi di lava che si precipitarono a valle dal costone delle Ripe della Naca che costituisce il piano di una faglia. La lava si divise in diversi bracci che, riunitisi a valle delle Ripe, iniziarono velocemente la discesa puntando direttamente verso l’abitato di Mascali, incanalate nel torrente Vallonazzo. Il 6 novembre Mascali era stata cancellata dalla carta geografica della Sicilia mentre l’eruzione continuò fino al 20 novembre dello stesso anno; erano stati emessi ben 26 milioni di metri cubi di lava. Quando nevica a quota inferiore a 1200 metri s.l.m. la neve imbianca le sciarose cascate di lava di Ripa della Naca delineandone nettamente il confine con la zona alberata risparmiata dalla colata. Queste singolari strisce di sciara imbiancata di neve assumono lo strano aspetto di un VII romano alla rovescia, cioè IIV dato che la neve si accumula sulla lava rendendosi visibile anche a notevole distanza rimarcando quelle che un tempo erano le incandescenti cascate della lava che ha distrutto Mascali. Gli anziani sanno leggere questo singolare “calendario” naturale annunciatore dei rigori invernali e conoscono che quando sull’Etna appaiono i “numeri romani” è bene preparare il braciere o più comodamente, come accade ai nostri tempi, accendere stufe, termosifoni o pompe di calore. Giovanni Tringali

Nel 1693 la Sicilia orientale fu distrutta da un forte terremoto: ma la causa non fu l’Etna.

L’11 gennaio non è una data tanto felice da ricordare per gli abitanti della Sicilia orientale e soprattutto dei paesi etnei abituati ai frequenti scuotimenti periodici dell’Etna. “« All'unnici di Jinnaru a vintin'ura a Jaci senza sonu s'abballava cui sutta li petri e cui sutta li mura e cui a misericordia chiamava » recita un vecchio proverbio siciliano per indicare i gravi danni arrecati alle abitazioni dalla potenza del terremoto che, con una magnitudo di 7.4, costituisce ad oggi l’evento di più elevata energia della storia sismica italiana. Ancora in vecchi scritti si legge « All’unnici di Jinnaru a vintu’ura, fu pi tuttu lu munnu ‘na ruìna: piccini e ranni sutta li timpuna diciènu - Aiutu! - e nuddu ci ni rava. Si n’era pi Maria, nostra Signura, tutti forimu muorti all’ura r’ora; all’ura r’ora ciancieriemmu forti se Maria nun facìa li nuostri parti..». Il terremoto dell’11 gennaio 1693 ha avuto l’epicentro in Val di Noto e si è verificato intorno alle ore 21. Concomitante ad esso si verificò un maremoto catastrofico che ha interessato pressoché tutta la costa orientale della Sicilia fino all’arcipelago maltese. Le vittime dei terremoti del 9 e dell’11 gennaio furono circa 60.000 (fonte G. Patanè, S. La Delfa, J.C.Tanguy “L’Etna ed il Mondo dei Vulcani”). Negli archivi parrocchiali di Aci S. Antonio si evincono 133 vittime il che è una cifra enorme se si considera che a quei tempi il paese era una piccola borgata. Ma non solo l’11 gennaio del 1693 il terremoto fece sentire i suoi nefasti effetti; anche l’11 gennaio del 1848, si verificarono due forti scosse di terremoto che distrussero buona parte di Catania e Acireale. Quello dell'11 gennaio 1693 rappresenta, assieme al terremoto del 1908, che il 28 dicembre distrusse la città di Messina (magnitudo 7.2), l'evento catastrofico di maggiori dimensioni che abbia colpito il territorio italiano in tempi storici (il terremoto del 6 aprile 2009 che ha distrutto buona parte della città di L’Aquila è stato di gran lunga meno energetico con una magnitudo di “appena” 5.9 della scala Richter). Infatti nel 1693 si è avuta la distruzione totale di oltre 45 centri abitati. Il sisma ha interessato una superficie di circa 5600 Km2 e causato un numero complessivo di circa 60.000 morti. La sequenza sismica relativa a questo devastante terremoto è iniziata il giorno 9 gennaio 1693 e si è protratta per circa 2 anni nel corso dei quali si sono avute circa 1500 repliche di minore energia molte delle quali hanno completato l’opera demolitoria della scossa principale. L'evento principale del XI grado della scala Mercalli (MCS) si è verificato alle ore 9 della sera dell'11 gennaio, dopo che alcune scosse di minore intensità di circa l’VIII grado della scala Mercalli si erano già fatte sentire la sera del giorno 9 e la mattina dell’11 gennaio giorno della scossa principale che avvenne alle ore 21. Il numero più elevato di vittime è stato registrato nella città di Catania dove sono morti circa i 2/3 della popolazione. Le caratteristiche dell'evento principale consentono di considerarlo, per molti aspetti, simile al terremoto del 4 febbraio 1169 che anch’esso ha distrutto i centri della Sicilia orientale e tale funesta data la si può leggere nella lapide che sovrasta l’ingresso del Castello di Acicastello. Secondo i geologi sembrerebbe che la struttura sismogenetica sede del fuoco sismico sia posta in mare, non lontano dalla costa tra Catania e Siracusa. Un’indiretta conferma di questa ipotesi è fornita dal maremoto associato all'evento sismico che, anche in questo caso come nel 1169, ha colpito la costa ionica della Sicilia orientale. La profondità ipocentrale stimata per l'evento principale fu di circa 20 Km quindi relativamente superficiale e pertanto fortemente distruttivo (oltre la magnitudo occorre anche considerare la profondità ipocentrale se lo stesso terremoto anziché 20 km fosse stato ad una profondità ipocentrale di 200 km non avrebbe provocato alcun danno). Negli antichi scritti si legge una frase che rende bene l’idea della grande distruzione: gli edifici furono “adeguati al suolo”. Fonti storiche indicano che il terremoto del 1693 fu seguito anche da un maremoto iniziato con un ritiro del mare lungo tutta la costa della Sicilia orientale per diverse decine di metri al quale fecero seguito altissime onde che si abbatterono prevalentemente sul litorale di Augusta anche se disastrosi effetti si sono avuti nel litorale catanese, mentre sembrerebbe che nel litorale siracusano il maremoto abbia avuto un impatto meno devastante probabilmente per la profondità dei fondali marini dovuta alla scarpata ibleo-maltese. Infatti il run-up ossia l’altezza dell’onda di tsunami è in un certo senso inversamente proporzionale alla profondità dei fondali. Il terremoto dell’11 gennaio 1848, anche se di minore intensità rispetto a quello del 1693, provocò gravi danni agli edifici di molti centri della Sicilia orientale in particolare Catania e Acireale. Eppure, è passato in sordina a causa dei ben noti eventi storici di quell’epoca che, segnando importanti tappe della storia d’Italia, ben presto lo fecero dimenticare… ubi major minor cessat. Qualcuno parla del Big- One siciliano per analogia con un grande terremoto che si aspetta a San Francisco. Ovviamente in una zona sismica è logico aspettarsi un terremoto; prima o poi arriverà perché la Sicilia orientale è una zona altamente sismica in quanto interessate da un sistema di faglie altamente sismo genetiche che sono state generate dalla collisione e conseguente subduzione della placca africana sotto quella europea. L’Etna quindi non centra nulla anzi potrebbe essere la conseguenza della tettonica regionale e certamente non la causa. Anche nella zona dell'Aquila era atteso un forte terremoto, visto che c'era un gap sismico che durava da 300 anni. Tutto sommato per quello che si aspettava per la verità non è stato molto energetico; poteva esserlo molto di più e ciò sicuramente è dovuto alla liberazione di energia nel corso della crisi sismica che ha preceduto la scossa più energetica… e poi come si fa a stabilire se il terremoto accadrà tra 10, 100 o 1000 anni? Quello che si può dire è che la scienza non ha ancora i mezzi per prevedere con certezza il verificarsi di un evento sismico e che in Sicilia non si è fatto nulla e si continua a far nulla per la prevenzione sismica. Per la verità è bene dire che il radon è un buon precursore sismico e Giampaolo Giuliani sulla base di una notevole anomalia del radon registrata alcune decine di ore precedenti l’evento sismico aveva previsto il terremoto di L’Aquila ma anziché un elogio si è beccato una denuncia penale per procurato allarme… che possiamo dire… questa è l’Italia con i suoi pregi ed i suoi difetti.

Giovanni Tringali

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Gli stupendi colori dei crateri dell’Etna

Capita spesso dopo una faticosa ascesa alle parti sommitali dell’Etna essere ripagato per lo sforzo della salita da stupende colorazioni delle rocce prospicienti aree fumarolizzate. Si tratta si condensati di sali contenuti nelle emissioni vulcaniche che conferiscono al substrato variopinti colori che vanno dal bianco al rosso con una netta prevalenza del colore giallo dello zolfo che talora si trova in vasti accumuli allo stato quasi puro. Spesso vengono indicati genericamente come sublimati ma tale terminologia non è corretta dato che la sublimazione è il passaggio dallo stato solido allo stato gassoso mentre qui invece accade il contrario. In questa foto si possono ammirare la tenardite che è di colore bianco (solfato di sodio Na2SO4), lo zolfo che è giallo ed il rosso del realgar (solfuro di arsenico). Il nome tenardite o più correttamente thenardite, deriva dal chimico francese Louis Jacques Thénard ed è molto frequente nei vulcani attivi o nelle lave recenti soggetti a prolungata fase di fumarolizzazione. Il colore rosso del realgar, il cui nome deriva dall’arabo "rahj-al-ghar", che significa polvere di miniera, è dato dal bisolfuro di arsenico (As2S2), che si trova in natura in zone vulcaniche, come nei dintorni del Vesuvio e dell'Etna oltreché in varie miniere di Sassonia, Boemia e Transilvania. Quando salendo ai crateri sommitali li vediamo godiamoci questo spettacolo dato che esso non dura molto; infatti, soprattutto in estate, le intense piogge li possono dilavare per cui non sempre si osservano nei vividi colori che vieppiù s’intensificano in assenza di piogge. Così l’escursionista resta estasiato sia per gli splendidi colori, sia per il fatto che essi mai configgono tra loro. Talora vediamo soggetti il cui colore della cravatta non si adatta alla camicia o al vestito; ebbene in natura non accade mai che i colori non si adattino tra loro: rocce, animali e vegetali qualsiasi colore portano, anche sgargiante, lo presentano sempre intonato al contesto.

Giovanni Tringali

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